Pallacorda per la Rai - Vocazione Servizio Pubblico
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale - Sapienza Università di Roma

Perché, ancora una volta, un seminario sulla RAI

Com’è noto, il termine “vocazione” attinge storicamente a significati religiosi (la chiamata; si pensi alla mitica tela del Caravaggio nella Chiesa di San Luigi dei Francesi dedicata a San Matteo), e nei secoli più recenti a contesti in cui l’influenza impressionante della figura di Max Weber l’ha fatta diventare un sinonimo di adesione a valori tendenzialmente universalistici. In entrambi i casi, si tratta di un sostantivo forte, e designa una freccia e un orientamento verso l’altro. Riparto da questo spunto semantico per giustificare la scelta di questo sostantivo come riferimento culturale per un nuovo servizio pubblico. Troppo a lungo [1], e troppo scopertamente, questa espressione è stata utilizzata per garantire attenzioni e risorse alla RAI, quasi a prescindere dal modo in cui essa ottemperava alla finalità di servizio. Inutile dire che una scelta di questo genere, alla lunga, , ha finito per usurare lo stesso valore di riferimento di servizio universale.

Questa premessa mi serve per richiamare due nodi fondamentali che si aprono alla nostra discussione: anzitutto, dovendo riassumere razionalmente le criticità fondamentali del servizio pubblico, quali si rivelano davvero essenziali e radicali? E, in seconda battuta, nella lista dei disagi e delle inadeguatezze si rintraccia un item che risulta strategico rispetto a tutti gli altri, al punto da pensare che affrontarlo con decisione significa accelerare la soluzione della crisi?

Sembrerà paradossale al tempo della sudditanza ai linguaggi dell’economia, ma propongo l’ipotesi che tra le tante criticità da affrontare quella strategica sia la soluzione del rapporto soffocante tra politica e televisione. È questo il nodo gordiano: hic Rodus.

Si tratta ora di argomentare questa assunzione di centralità perché ne possono discendere interventi a catena. Sappiamo tutti che, nelle società democratiche, la comunicazione è sempre apparsa come una risorsa sospesa tra una dimensione di educazione sociale e democratica, e una gigantesca industria dell’intrattenimento e del divertimento. Nella stessa retorica delle definizioni delle finalità della BBC, le funzioni culturali (informare, educare) a ben vedere prevalgono nettamente entro il trittico semantico in cui resta solo il verbo divertire.

Che molte società e sistemi politici abbiano dunque scelto la strada di un accostamento tra politica e istituzioni da un lato e la televisione dall’altro, appare più che comprensibile, soprattutto sul piano storico e ricollocandoci in una temperie culturale oggettivamente diversa dall’oggi. Infatti se lo Stato ha il compito preminente di assicurare servizi universali a tutti – dalla scuola alla salute, al welfare – non si capisce perché quella che gradualmente si è imposta come la vera autostrada della modernizzazione, e cioè la tv, potesse essere esonerata da uno sguardo e da un controllo pubblici, e dunque almeno in parte sottratta alle pretese del mercato.

Tutto questo è assai bello in linea di principio, ma si scontra poi con il modo in cui i processi sociali sono stati interpretati nel caso italiano. Solo da noi è stato inventato ed esiste il termine “lottizzazione”, con ciò intendendo un ossessivo riferimento delle risorse, anche umane, alle visioni politiche dominanti del paese. Solo da noi un processo di Riforma, per anni studiato come esempio di modernità, si è trasformato essenzialmente in un ampliamento dei soggetti politici legittimati, finalizzando ad esso persino l’istituzione di una nuova rete. Un caso lampante in cui la cosmologia culturale, per definizione ricca di divergenze nelle società moderne, viene fatta coincidere con il pluralismo non solo della politica, ma addirittura dei soli partiti.

A ben vedere, il sugo della storia si è tradotto allora nel trasferimento della potestà di intervento dal Governo (che lo esercitava attraverso il Ministero delle Poste) al Parlamento. E anche qui i tempi sono maturi per un’autocritica collettiva: era sembrato che in via di principio lo spostamento dall’Esecutivo all’Organo deliberativo fosse un segno di pluralismo e persino di apertura potenziale ai nuovi soggetti della domanda politica. Ma alla fine dei conti, tutto questo si è tradotto in due luoghi comuni dell’immaginario che hanno acquistato nel tempo una sonorità tutt’altro che entusiasmante: Commissione di Vigilanza e, in seconda battuta, costruzione di un complesso sistema di indecisione/interdizione, sempre più estraneo alle esigenze di un’Azienda entrata in un regime di competitività industriale. Due dimensioni che non evocano solo cattivi pensieri.

Un secondo parametro per legittimare la decisività dell’assunzione della politica come nodo prioritario per riaprire uno sviluppo della tv riguarda le conseguenze sociali che hanno intrecciato il discorso comune sulla televisione, la formazione di pregiudizi duri a morire e, dunque, le modificazioni nella percezione collettiva di cosa è la RAI. In questo contesto era impossibile per quanti pagavano il canone sentirsi azionisti della RAI e tantomeno tifosi. Intere generazioni hanno condiviso, persino al di là dei parametri reali, l’idea che la RAI fosse un latifondo della politica, e per ciò stesso, condannata ad un minor grado di innovazione, e dunque fatalmente destinata a stare alla retrovia dei cambiamenti nell’immaginario e nella creatività.

Ho già studiato, in tempi non sospetti, una simile ipotesi complessiva di lettura della fortuna italiana della tv commerciale, argomentando l’idea che i soggetti moderni ritengono la tv un terreno di libertà dall’arbitrio della politica[2].

La profilatura dell’opinione pubblica intorno ad un assunto simile ha rappresentato, negli anni, un elemento di condizionamento del mercato televisivo e nella stessa costruzione delle tipologie di consumo. In questa direzione, la scarsa riconoscibilità complessiva dell’offerta RAI rispetto al modello commerciale ha fatto il resto, riducendo il prestigio del servizio pubblico persino tra i suoi potenziali difensori. Si può ben capire quanto un processo di questo genere si sia radicalizzato in un momento storico in cui una qualunque forma di rispetto della politica è stata sostituita dalla diffusione vittoriosa di slogan e idee abbreviate sull’antipolitica, in un contesto in cui la parola canone si è caricata di una serie di elementi di negatività fino a farla diventare una “tassa del macinato” televisivo.

Osservando criticamente questa nuvola di parole, è indubbio che molti degli argomenti citati sono riconducibili ad uno dei più seri problemi nel modello di sviluppo del paese: la stravittoria di un modello di discussione culturale e argomentativa che è la vera fortuna del populismo. Troppi luoghi comuni sugli eccessi della politica, sul canone e sugli sprechi sono totalmente infondati, ma ciò non toglie che essi siano ormai irresistibili nel teatrino delle battute sbrigative e dei ragionamenti di corto respiro. Sono diventati così un fatto politico, che nulla ha a che fare con la centralità della politica in una società democratica.

A queste dimensioni si deve avere il coraggio di aggiungere una serie di elementi di prova assunti per il momento come titolo di un lavoro già avviato da molti. La dipendenza della tv dalla politica ha ridotto l’innovazione di programma, di prodotto e di linguaggio, indebolendo la RAI nella competizione di mercato. Ha ridimensionato la possibilità che nascesse un ceto di comunicatori e giornalisti pienamente aperti alle esigenze dei mercati di una comunicazione sempre più competitiva. Ha aumentato la paura di sbagliare perché diventavano troppi i centri di giudizio e di intervento lungo il continuum azienda/politica. Ha soprattutto inflazionato la frattura tra giovani e tv, anche sulla scia di un’apatia politica rigonfiata dal populismo degli ultimi decenni.

Per onestà intellettuale, occorre aggiungere che non tutte le dimensioni descritte sono empiricamente riferibili alla dipendenza della RAI dalla politica; ma il problema è che, nel teatrino delle rappresentazioni pubbliche, tutte sembrano univocamente discendere da questo nodo, e diventa dunque indispensabile una terapia d’urto capace di rimuovere questo argomento dal dibattito, togliendo ogni alibi alla decisione aziendale e all’autonomia dei professionisti.

E la prova c’è già nel dibattito di queste settimane: non sembra vero, ma la semplice scelta di annunciare un programma di disimpegno della politica dalla RAI ha già provocato benefici evidenti ed una distensione dei pregiudizi. Anche se viene ironicamente alla mente una frase di Frantz Fanon, secondo cui “non saranno mai bianchi a fare le leggi che servono per i neri”, dobbiamo prendere atto che l’operazione di rilancio del servizio pubblico è strettamente collegata alla rottamazione dei legami tra l’azienda televisiva e il suo editore di riferimento. È questo il tempo e il momento. Paradossalmente lo è anche al fine di rilegittimare diversamente le risorse finanziarie per l’innovazione di cui il servizio pubblico ha urgente bisogno.


Λ [1]Anche qui c’è un precedente letterario prezioso, desunto da Il Gattopardo. Quasi all’incipit del romanzo, nelle pagine dedicate alle udienze reali, il principe discute con un parente che propugna la forza dell’idea monarchica. “Parole bellissime, …che indicavano tutto quanto era caro al principe sino alle radici del cuore”… e poco oltre, il difensore della monarchia dice: “un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è”; ma a questa bella assunzione di valori permanenti l’amarezza del principe risponde con questo pensiero: “vero anche questo; ma i re che incarnano un’idea non devono, non possono scendere… al di sotto di un certo livello; sennò…anche l’idea ci patisce”.

Λ [2] Mario Morcellini Lo spettacolo del consumo: televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 1986 e ripreso poi da David Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), Il Mulino, Bologna, 2000.

Mario Morcellini

Professore Ordinario in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi. È direttore del Coris - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. Ricopre l'incarico di Presidente della Conferenza Nazionale delle Facoltà e dei Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione, Portavoce nazionale dell’Interconferenza dei Presidi, Consigliere del CUN (Consiglio Universitario Nazionale). È membro Ordinario del Consiglio Superiore delle Comunicazioni.

 

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